Marco Pellitteri (Palermo 1974), grafico pubblicitario ed editoriale, sociologo dei media, con particolare attenzione al fumetto e al cinema d’animazione. Suoi contributi si trovano in riviste nazionali e straniere, in libri collettanei e atti di convegni in Italia e all’estero. Per la Casa Editrice Tunuè dirige le collane di saggistica “Lapilli” e “Le virgole”. È autore dei libri Sense of Comics (1998), Mazinga Nostalgia (1999), curatore del volume Anatomia dei Pokemon (2002), Conoscere l’animazione (2004), Il Drago e la Saetta (2008) ultima opera dove Pellitteri fa un’analisi sociologica di come l’immaginario pop giapponese sia giunto in vari paesi (Italia in primis), agendo sull’immaginario occidentale e in particolare su quello dei giovani e ragazzi. Aiuta a conoscere un punto di vista diverso per interpretare quella parte di mondo che esporta innovazione e creatività.
Assolutamente veri
Di M. Pellitteri
Riprendendo un articolo di A. Faeti “Assolutamente Vera”
Schizzo idee e immagini n° 14 Centro Fumetto A.Pazienza-Cremona
C’è un articolo bellissimo di Antonio Faeti, il noto esperto di letteratura per ragazzi, illustrazione e fumetto. Faeti ha scritto moltissimi articoli. Uno in particolare, però, fa qui al caso nostro. È stato pubblicato circa due anni fa sul numero 10 della rivista “Schizzo”, un’ottima pubblicazione di approfondimento critico edita dal Centro Fumetto “Andrea Pazienza” di Cremona.
L’articolo si intitola Assolutamente Vera ed è un piccolo, intenso, sbalorditivo saggio di estetica del fumetto e di investigazione dell’opera di una bambina, di nome Vera, scomparsa purtroppo prima di compiere dieci anni. Vera è stata, per certi aspetti, un caso limite. Perché questa bambina fuori del comune era dotata di un talento artistico parimenti straordinario. E questo talento artistico lei lo espletava anche tramite il fumetto.
Faeti in quell’articolo indirettamente si interroga, e con ciò interroga anche il lettore, su almeno due punti di enorme interesse, e dal primo scaturisce anche il secondo, seppure tali questioni non siano necessariamente correlate.
Il primo interrogativo riguarda l’impossibilità di scrutare in un futuro parallelo che maledettamente non ci è dato conoscere, quello cioè in cui Vera sarebbe cresciuta, maturata, e oltre alla ricchezza di gioie ed emozioni che la vita le avrebbe offerto, avrebbe anche scoperto fin dove potesse arrivare il suo innato talento artistico, un dono che fin dai 3 o 4 anni di età le aveva consentito non solo di realizzare bellissimi disegni ma anche di ideare e produrre storie a fumetti di sorprendente spessore grafico e di rara lucidità narrativa, soprattutto considerato non tanto che fosse “solo una bambina” quanto che avesse avuto a disposizione solo pochi anni per sperimentare e cominciare appena quel processo di crescita che porta il talento a fiorire pienamente.
Il secondo interrogativo concerne una questione al contempo estetica e pedagogica che raramente viene sollevata e ancor più raramente affrontata con la dovuta serietà: se e quando ha senso parlare di Arte, con la “a” maiuscola, a proposito di produzioni estetiche realizzate da bambini. Non mancano certo i contributi illuminanti in tal senso, sia in lingua italiana sia prodotti in ambienti accademici di altri Paesi. Forse se ne parla però fin troppo poco “nel mondo comune”, quello fatto di penne profumate e grembiuli gualciti, quello in cui ci si sveglia alle 6,30 per accompagnare tutti e tre i figli in tre scuole diverse, quello in cui… beh, ci siamo capiti. Sto parlando del mondo della scuola elementare, che generalmente tanta attenzione pone alla formazione dei bambini; del mondo delle famiglie, che cerca per quanto possibile di dare ai figli il meglio; e sto parlando dei mass media generalisti di oggi, e di come trattano con superficialità e irresponsabilità il mondo dell’infanzia, restituendone un’immagine banalizzata e patinata che poco ha a che vedere con la realtà, spesso perfino più “ruspante” e sempre, regolarmente, più complessa e problematica.
Antonio Faeti e lo staff editoriale del Centro Fumetto “Andrea Pazienza” (attualmente l’unica struttura permanente in Italia dedicata al fumetto, che oltre a curare numerose pubblicazioni è dotata di una grande biblioteca con più di 30.000 fra albi e volumi) hanno riaperto una porta piena di luce nel tentativo di risvegliare i lettori, o almeno una parte di essi, dal torpore nei confronti dell’argomento “arte e bambini”. Ovviamente già personaggi di spicco e immenso acume come Bruno Munari, nel passato, se ne sono occupati; ma in tempi recenti, io almeno ho questa impressione e con gioia amerei essere smentito, ci si è tanto preoccupati di stabilire cosa fra quello che i bambini leggono e guardano sia loro adatto, che ci si è un po’ dimenticati di fare attenzione a ciò che invece i bambini pensano, scrivono e in generale a cosa essi creano: sì, esatto, nel senso artistico del termine.
Il caso di Vera non è certo isolato: quanti bambini sono insospettabilmente dotati nelle più svariate forme creative. La storia ce lo insegna, si suol dire. In realtà la storia ci insegna, piuttosto, che talvolta nascono dei bambini prodigio; qui invece io vorrei invitarvi a pensare che per essere dei bravi “artisti” non occorre essere geniali, e non occorre essere adulti. Occorre semmai che esista un ambiente che ci stimoli fin da piccoli a utilizzare al meglio le capacità che la natura o chi per lei ci ha donato; e tali doti quasi mai sono scarse, a livello innato. Una casistica potenzialmente illimitata di disegni effettuati da bambini piccoli e di altri disegni realizzati dagli stessi bambini pochi anni più tardi, ci indica come il più delle volte siano più liberi, agili, disinvolti, dinamici e aggraziati (in una parola: più belli) ma soprattutto più creativi i disegni realizzati a 5 o 6 anni piuttosto che quelli fatti a 12 o 13. Perché?
Evidentemente succede qualcosa in quei sette od otto anni che fa in qualche modo “regredire” l’espressività artistica dei bambini. Le cause possono essere tante: il decadere di un interesse e il crescere di altri può infatti essere una delle principali. E questo va accettato, perché non è detto che il mondo sia fatto tutto da potenziali artisti. Tuttavia dispiace pensare che, fra un tot bambini talentuosi, ce ne siano almeno alcuni che potrebbero diventare buoni, ottimi o grandi artisti – in questa o in quella disciplina, poco importa quale – e che vengano scoraggiati da fattori esterni che possibilmente siano perfino in diretto e conflittuale contrasto con una loro genuina passione e volontà di continuare a sperimentare. Molti degli interessi che ci accompagnano durante tutta la nostra vita nascono durante l’infanzia e la preadolescenza, che è poi lo stesso periodo in cui in qualche modo siamo spesso costretti ad abbandonare tali amori per i motivi più diversi, e non sempre dipendenti dalla nostra volontà.
Non è questo, tuttavia, il caso in cui mi sono imbattuto lo scorso aprile: ho fatto la conoscenza con una intelligente, organizzata e iperattiva direttrice scolastica e con il suo entusiasta e professionale corpo docente del Secondo circolo didattico di Aprilia. Mi sono trovato, con mia grande gioia, in molte classi di scuola elementare, a contatto con bambini dagli 8 ai 10 anni, tutti estremamente desiderosi di imparare se non altro i primi elementi di base di una forma artistica grafico- narrativa, il fumetto, con la quale si sentono in estrema sintonia in primis da lettori e poi come aspiranti emulatori di quei misteriosi, bravi professionisti che ogni giorno in tutto il mondo restano chini ai loro tavoli da disegno con la ferma intenzione di produrre storie disegnate che facciano sognare, riflettere, divertire, avvincere lettori di tutte le età e nazionalità.
Naturalmente, le pochissime ore che ho potuto dedicare ai vari incontri sono appena bastate a dare una prima “infarinatura” generale su cosa il fumetto sia e su come i fumetti si debbano e si possano realizzare. Chissà che nel prossimo futuro non sia possibile dar vita a un percorso più organico e graduale; di certo so che la volontà ad Aprilia c’è e soprattutto se ne sente l’opportunità didattica perché le maestre e i genitori hanno perfettamente compreso che attraverso il linguaggio fumettistico, la sua storia letteraria e le sue mille varietà espressive, oltre che nel processo creativo nudo e crudo attraverso cui le storie a fumetti vengono prodotte, sarebbe possibile insegnare ai giovani allievi, ai bambini, molto più che il semplice “disegnino” o la nuvoletta o come si disegna la faccia di Topolino.
Senza che i bambini se ne accorgessero – perché il tutto sarebbe perfettamente dissimulato dal divertimento e da una materia di studio “trasgressiva” nel suo esser quasi del tutto fuori dai consueti canali didattici – essi imparerebbero, o perfezionerebbero, tante cose contemporaneamente: il disegno, la storia del fumetto e dei suoi personaggi, tanti piccoli segreti del linguaggio, il saper esprimere le proprie idee fantasiose mettendole per iscritto e poi disegnandole non solo per sé stessi ma per un pubblico. Questo comunque è quello che si potrebbe fare con più calma. A noi però attualmente, e in questo mio intervento – forse un po’ lungo, ma profondamente sentito – interessa, credo, commentare quello che abbiamo fatto negli incontri di aprile. Quello che i bambini con cui ho lavorato hanno prodotto. I risultati che sono stati raggiunti grazie alla passione e alla competenza delle insegnanti. Grazie alla pazienza e all’amore dei genitori. E, soprattutto, grazie al talento dei bambini.
Nelle mie dimostrazioni alla lavagna ho cercato di mostrare a questi attentissimi, giovani studenti in piena fase di scoperta delle loro capacità, che ideare e realizzare un fumetto non è una cosa che si improvvisa. Per far questo ho cercato innanzitutto di far comprendere ai bambini che cosa davvero è un fumetto. Non sono figurine casuali. Non sono disegni stampati col timbro. Non sono storielle stupidine per persone illetterate che hanno bisogno dell’aiuto delle immagini per capire.
Un fumetto è prima di tutto una storia, una narrazione, che può essere indirizzata a pubblici diversi: a bambini, a ragazzi, ad adulti, a tutti contemporaneamente. Essa può viaggiare attraverso i generi – western come “Tex”, supereroico come “L’Uomo Ragno”, comico come “Snoopy”, avventuroso come “Dragon Ball”, horror come “Dylan Dog” – e attraverso gli stili grafici, tutti quelli che gli autori di fumetti nel mondo, dall’Italia agli USA, dall’Europa al Giappone, dal Medio Oriente alla Cina, sono riusciti a creare in più di cent’anni di storia di questa forma espressiva. E quindi “fare un fumetto” non vuol dire solo mettersi a disegnare qualcosa che ci piace, bensì ideare una storia che sia avvincente per coloro che dovranno leggerla, per il pubblico, come scrivevo su. Una storia non si scrive solo per noi stessi ma per gli altri. Il fumetto, il narrare storie, parte dunque da un atto, se vogliamo, di altruismo, un atto d’amore verso il prossimo, e non solo dalla necessità di soddisfare il nostro ego di aspiranti artisti.
Un fumetto, poi, non significa dare semplicemente sfogo alla nostra voglia di disegnare; dobbiamo invece disciplinare bene il nostro lavoro perché i lettori capiscano quello che avremo disegnato, quello che avremo raccontato tramite le immagini in sequenza. E questa disciplina visiva e narrativa ci è data da quelle regole di base che fanno del fumetto un vero e proprio linguaggio, le cui norme esistono e sono tante, e che però possono consapevolmente essere trasgredite perché il fumetto è anche libertà: il fumettista, se conosce bene le regole del suo linguaggio, sarà bravo anche a saperle scardinare in modo creativo e mai incomprensibile per i suoi lettori.
Un fumetto, infine, può essere un lavoro solitario, in cui un unico autore svolge autonomamente tutte le fasi di realizzazione della sua storia; oppure può essere un’attività di coppia o di gruppo, a seconda del tipo di suddivisione dei compiti che si deciderà di attuare. La fase dell’ideazione della storia dal soggetto alla sceneggiatura, quella del disegno a matita, quella del ripasso a china (cioè con l’inchiostro nero), la fase della colorazione e infine quella del lettering, cioè l’aggiunta di tutti i testi (nuvolette, rumori di scena ecc.), ebbene tutti questi momenti rendono la creazione di una storia a fumetti un lavoro vero e proprio, un mestiere che è al contempo per gli adulti un’attività artistica e lucrativa; e per i bambini e ragazzi può essere un’attività di formazione al linguaggio – o meglio ai linguaggi – e alla progettualità, prerogativa irrinunciabile di ogni attività artistica-artigianale che richieda la presenza del soggetto giudice finale dell’opera, appunto il pubblico.
E veniamo ai fumetti, i fumetti prodotti e “confezionati” da questi deliziosi, magnifici bambini. I lavori realizzati sono così tanti che sarebbe inutile commentarli uno per uno. Li ho visti in fieri, ancora abbozzati a matita, ho letto i soggetti e le rudimentali sceneggiature, e li ho confrontati poi con le storie disegnate. I ragazzi hanno cominciato a imparare un processo che non è solo creativo ma è anche lavorativo, e che in piccolo riproduce le modalità reali con cui lavorano i fumettisti professionisti.
I bambini, credo che questo sia l’aspetto cruciale di tutto il lavoro che abbiamo svolto insieme, si sono resi conto che nel fare un fumetto occorre operare delle scelte: bisogna scegliere cosa fare accadere, bisogna stabilire se la storia dev’essere comica o drammatica, quanti personaggi occorrono, quale dev’essere il loro design, e i loro rispettivi caratteri; e bisogna inoltre decidere la forma, la dimensione e le posizioni delle vignette; cosa deve accadere in ciascuna vignetta e quali saranno le inquadrature da adottare; se le scene saranno dinamiche o statiche. E potrei continuare.
Certamente, non c’è bisogno che ve lo dica, i bambini non hanno capito tutto e non hanno capito se non secondo quello che la loro età permette; però quel che hanno capito non è poco – mai sottovalutare i bambini, le loro risorse sono insospettabili. E ad ogni modo, così come al liceo lo studio del latino permette più che altro di acquisire un metodo, una disciplina mentale che ci servirà nel futuro, fuori dalla scuola, e che applicheremo alle più svariate situazioni in cui occorra una riflessione logica, così alla scuola elementare il folto grappolo di attività collaterali proposte ai bambini serve a stimolarli, a “caricarli”, a renderli partecipi e progressivamente più sicuri dei propri mezzi.
Poi, forse, quando saranno più grandi, capiranno che il fumetto non è solo uno strumento ma una forma letteraria matura e ricca, un’arte contemporanea tipica del XX secolo, un potente medium di massa e un formidabile serbatoio dell’immaginario di noi tutti. Ma per il momento, se essi non sanno tutto ciò, non ha molta importanza. L’importante però è che ne siamo a conoscenza noi adulti, o no? “Ma in fondo sono solo fumetti”, cari e stimati genitori, è una frase che non voglio sentirvi né dire né pensare. Non perché non voglia che sminuiate il fumetto. I fumetti sono passati attraverso le critiche più varie e sono sempre sopravvissuti. È che non voglio che siate voi, proprio voi, a sminuire i vostri figli, il loro operato, la loro passione. Eventualmente, in alcuni casi di cui mi sono accorto e che ho ben chiari in testa, il loro reale talento.
In realtà i fumetti in sé, qui a scuola, sono in gran parte solo uno strumento per arrivare ad altro: per creare degli interessi o per ravvivarli, per fare della didattica “mimetizzata” grazie all’abilità delle maestre, per entusiasmare all’attività creativa in prima persona. Domani magari non sarà il fumetto ma magari basterà una gita in campagna a far volare gli aquiloni per spiegare ai ragazzi le correnti aeree e il volo degli uccelli. Quello che conta, io credo, e sono certo di scoprire l’acqua calda, è che i bambini abbiano sempre la mente occupata, che vengano stimolati, che li si sfidi e che loro accettino la sfida, che li si punga nel cervello e che il loro cervello reagisca bene e con grinta agli impulsi dall’esterno, fino a quando sarà così abituato che non avrà bisogno di nessuno per cercare nuove sfide, e che se ne andrà tutto da solo per la sua strada. Mi parrebbe questo il modo più nobile per mantenere il più grande pregio che i bambini hanno, e per il quale ci riempiono così spesso di genuina meraviglia. Essi sono assolutamente veri.